Secondo un rapporto della Sace, vini, conserve, oli d’oliva e frutta fresca sono i prodotti a maggiore potenziale di crescita all’estero. Per il vino il fatturato dovrebbe incrementarsi di 1,6 miliardi. Suggerito un mix di azioni a seconda dei Paesi: rafforzamento su quelli maturi, maggiore adattamento alle realtà locali in quelli emergenti
Paolo Ferrante
Le esportazioni di prodotti italiani cresceranno nel 2015 del 3,9%, un tasso doppio rispetto a quello di un anno fa. Ma le attese sono per un’ulteriore accelerazione nel triennio 2016-2018, fino al +5%, grazie alle circostanze favorevoli che si sono venute a determinare in questi mesi soprattutto sui mercati valutari. Lo prevede Sace, società in capo a Cassa Depositi e Prestiti specializzata in prodotti assicurativi e finanziari per l’export.
La ricetta suggerita dagli analisti assegna un carattere strategico alla valorizzazione delle filiere agroalimentari, che sono quelle che presentano i potenziali migliori rispetto ad altri settori, e alla selezione delle geografie più promettenti per i prodotti italiani, in questo caso in un’ottica intersettoriale.
Allargando la platea dei mercati e intervenendo con maggiore incisività sulla leva dell’internazionalizzazione, Sace stima per il settore agroalimentare un export aggiuntivo di 9 miliardi di euro entro il 2018: il grosso, circa 7 miliardi, verrà da alimenti e bevande (vedi grafico), mentre altri 2 miliardi di euro saranno assicurati dalle esportazioni di macchinari agricoli e di impianti per la trasformazione alimentare.
Meglio l’agroalimentare
Ad oggi – spiegano gli analisti – i prodotti agricoli e quelli del food & beverage sono in assoluto i più promettenti. Nei prossimi quattro anni le esportazioni agroalimentari cresceranno in media del 6,5%, un tasso superiore a quello previsto per i beni di consumo nel complesso (+5,3%, nel medesimo periodo), per i beni di investimento (+5,2%) e per quelli intermedi (+3,9%).
Saranno soprattutto i mercati maturi a riservare le migliori prospettive di crescita alle filiere agroalimentari. Anche se in generale il mix di geografie a maggiore appeal per l’export italiano, con un punteggio superiore a 65 in un range compreso tra 0 e 100, è costituito da un insieme diversificato di 39 mercati che già rappresentano il 73% dell’export italiano. Nella lista delle migliori destinazioni rientrano l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, il Qatar, ma anche la Corea del Sud, la Cina, l’Indonesia e la Malesia. Mercati di maggiore prossimità geografica, come la Turchia e la Polonia (quest’ultimo grande quanto la Russia, quanto a esportazioni italiane), mantengono una forte attrattività. Ma buone opportunità si presentano anche in alcune mete tradizionali, come Usa, Regno Unito e Germania, se non altro in termini di rafforzamento dell’export.
Le potenzialità
Secondo Sace, vini, conserve, oli d’oliva e frutta fresca (in particolare mele e pere) sono i prodotti a maggiore potenziale di crescita oltre confine, soprattutto se le azioni di rafforzamento della presenza del made in Italy si concentreranno nelle destinazioni più promettenti, quali Regno Unito, Germania, Francia, Usa, Spagna, Giappone e Canada. Si tratterà in particolare di migliorare ulteriormente la già elevata qualità dei prodotti esportati, di agire in maniera più selettiva sui canali distributivi e di investire sulla valorizzazione dei brand.
Vino: 1,6 miliardi in più
Per il segmento vino, Sace prevede un export aggiuntivo da qui al 2018 di poco più di 1,5 miliardi di euro. Al vino, rileva il rapporto Sace, l’Italia deve molto: un prodotto che contribuisce in modo significativo alla diffusione della qualità del made in Italy nel mondo. Più dell’80% delle esportazioni vinicole è attribuibile, tuttavia, ad appena cinque regioni, rappresentate da Veneto, Piemonte, Lombardia, Toscana e Trentino-Alto Adige. Ambiti in cui il successo è correlato anche alla presenza di distretti industriali consolidati che valorizzano la specifica tradizione vitivinicola dei territori di appartenenza. Il Prosecco in Veneto o i vini delle Langhe, Roero e Monferrato in Piemonte, due regioni che da sole muovono rispettivamente 1,7 e un miliardo di euro di esportazioni, ne rappresentano un valido esempio.
Ciononostante, estendere la partecipazione ad altre regioni, puntando anche su prodotti indifferenziati, esportabili in grandi quantitativi, potrebbe offrire, anche al comparto vinicolo, nuove opportunità, soprattutto nei mercati emergenti, incrementando ulteriormente il giro d’affari. Senza sacrificare le specificità delle produzioni a maggiore valore aggiunto – spiegano gli analisti – l’Italia potrebbe insomma puntare anche all’export di prodotti più vicini all’idea di commodity, come i vini da tavola. Segmento in cui i principali competitor delle cantine italiane, anche del Nuovo mondo, ottengono, non a caso, performance decisamente migliori agendo soprattutto sulla leva del prezzo.
Mercati emergenti
Nei mercati emergenti, gli sforzi dovranno convergere verso una maggiore comprensione dei gusti locali e un migliore adattamento dei prodotti alle aspettative dei consumatori. L’area Asia-Pacifico, un mercato da 40 miliardi di euro per l’export italiano, presenta un alto indice di attrattività ed è sicuramente la più dinamica in termini di domanda potenziale. In Cina, cresceranno soprattutto le esportazioni di alimenti e bevande (+5,3%, in media, nel periodo 2015-2018), ma il consiglio di Sace è di approfondire, nell’intera regione asiatica, la conoscenza di alcuni aspetti prioritari: dalla tutela delle proprietà intellettuali alle licenze di importazioni e certificazioni, dalle procedure doganali alle barriere non tariffarie.
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