Si è concluso con un convegno il 22 novembre scorso, all’Università di Milano, il progetto triennale per il settore enologico denominato "Enotrack"
Si è concluso con un convegno il 22 novembre scorso, all’Università di Milano, il progetto triennale per il settore enologico denominato ‘Enotrack’. “Ci siamo concentrati sul prodotto che può avere più spazi di mercato, le bollicine – ha premesso il responsabile scientifico, prof. Roberto Foschino, aprendo il convegno milanese – anche tenendo presente che la Lombardia raggruppa i 2/3 della produzione di metodo classico nazionale. All’interno di questo segmento produttivo abbiamo voluto lavorare sui lieviti come strumento di diversificazione produttiva anche a valenza territoriale, anzitutto indagando quali Saccharomyces fossero presenti nei due territori prescelti, l’Oltrepò Pavese e la Franciacorta. Gli starter oggi in uso, a livello mondiale, di fatto si basano su tre ceppi, ed è auspicabile invece avere maggiore diversità”. Oltre a verificare l’idoneità dei lieviti autoctoni si è anche considerato il tema delle tracciabilità, mirando ad indagare come e se il Dna del lievito, che rimane a lungo nel vino, potesse essere utilizzato come discriminante per legare il vino al territorio, anche a posteriori in caso di controlli sulla genuinità e provenienza. Altra particolarità della ricerca è stata quella di focalizzare ceppi idonei non tanto alla conduzione della prima fermentazione, quanto alla rifermentazione, ovvero la presa di spuma. Selezionati i ceppi del gruppo cerevisiae e quindi testati anche per le proprietà tecnologiche e sensoriali, si sono quindi allestite le colture concentrate e si sono fatti i tiraggi in 5 cantine della Franciacorta e 3 in Oltrepò. In ogni zona, di 4 ceppi valutati positivamente, 2 sono stati giudicati i più interessanti e con quelli si è effettuata la rifermentazione.
Quali le eventuali ricadute dei risultati? “Almeno su tre livelli – ha spiegato Foschino – per i produttori si apre la possibilità di una maggiore valorizzazione del legame territoriale con anche opzioni di miglioramento dei caratteri sensoriali dei vini; per i consumatori e gli organi ispettivi la messa a punto di metodi per il riconoscimento e conservazione di ceppi autoctoni nel prodotto finito e la salvaguardia della tipicità; per i ricercatori è stata una interessante ricognizione della biodiversità”.
Ileana Vicentini, microbiologa dell’Università di Milano ha spiegato che sono state raccolte 29 specie di lievito, massimamente isolate dal mosto, con Saccharomyces che la fa da padrone. Si è riscontrato comunque un effetto annata, ovvero in annate diverse gli isolati cambiano. “I ceppi autoctoni impiegati come colture per la rifermentazione – ha proseguito Foschino – mostrano risvolti qualitativi interessanti e sono in grado di condurre correttamente la rifermentazione arrivando a profili interessanti che fanno prevedere anche la loro possibile sostituzione agli attuali starter commerciali”. Non del tutto positivo invece l’esito relativo alla tracciabilità legata al rilascio degli acidi nucleici nel vino da parte del lievito; i protocolli di estrazione testati non hanno dato risultati sempre affidabili. Il limite per la possibilità di ‘riconoscere’ il Dna del lievito nel vino si è fermato infatti al limite massimo di 16-18 mesi e comunque prima della sboccatura.
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