Distributori sotto accusa in America. Una ricerca denuncia: in quattro anni spesi 82 milioni di dollari in contributi elettorali per convincere i politici a respingere ogni ipotesi di aprire il mercato. Ma loro si difendono: il nostro lavoro è il modo più efficace per vendere
Nonostante siano quasi 80 anni che il sistema di vendita di vino in America opera nella sua caratteristica forma su tre livelli – produzione, importazione e distribuzione – questa struttura non è mai stata accettata da molti nell’industria stessa. Alcuni la definiscono un “bottle neck”, un collo di bottiglia, che negli ultimi anni, per via delle fusioni tra i vari attori della distribuzione, è diventato sempre più stretto, in un mercato che invece ha sempre più sete di vino. Risultato, difficoltà crescenti nel proporre nuove e diverse varietà, appiattimento su pochi marchi (i più grossi e strutturati), svilimento dei piccoli produttori locali. Per i vini d’importazione, poi, la difficoltà triplica, perché gli sforzi commerciali e di marketing si decuplicano, avendo le leggi federali imposto l’obbligo di dialogare con attori diversi a seconda dello Stato in cui si vuole vendere vino. Ma il dubbio se questo sistema sia il migliore dei sistemi possibili se lo stanno ponendo con forza gli stessi americani che lavorano all’interno del mercato del vino. Chi non ha dubbi invece al proposito sono i distributori, i quali – pur punzecchiati e anche in modo pesante – difficilmente parlano.
Un silenzio assordante
Mentre infatti la maggior parte dei produttori e degli enotecari non è mai stata timida nell’esprimere la propria opinione, stranamente la squadra della distribuzione non parla. Nemmeno quando – è questo l’ultimo caso in ordine di tempo – Tom Wark, direttore generale di “Specialty Wine Retailers Association” (un’ associazione di proprietari di negozi di vino), ha pubblicato una ricerca dal titolo “Towards Liquor Domination”. Eppure lì dentro di cose interessanti ce n’erano abbastanza.
Per esempio, Wark afferma che uno dei problemi più gravi nel livello di distribuzione negli Stati Uniti origina dal fatto che quelli che ci lavorano di solito guadagnano, in percentuale, molto più di negozianti e produttori. E nella ricerca elenca puntigliosamente tutti i contributi elargiti dal settore distributivo alla classe politica in termini di sostegno alle campagne elettorali per mantenere in vita questo “perfetto affare” (sweet deal). La ricerca di Wark, per esempio, ha messo in luce come dal 2006 il settore distributivo nel suo complesso ha speso in finanziamenti per le campagne elettorali federali e di Stato ben 74 milioni di dollari. Un flusso di denaro quasi doppio rispetto a quanto messo assieme da aziende, distillatori, birrifici e wine stores. Da sole, inoltre, le due più grandi organizzazioni dell’industria della distribuzione – la National Beer Wholesalers Association e la Wine & Spirits Wholesalers Association – hanno investito più di 8,8 milioni di dollari in attività di lobbying presso il governo americano. Questo enorme flusso di denaro, pari in totale a oltre 82 milioni di dollari, ha consentito – questa l’accusa di Wark – di tenere in piedi questo sistema protezionistico che va a vantaggio solo ed esclusivamente dei distributori.
Fonte: “Toward Liquor Domination 2011”, Specialty Wine Retailers Association
Wark ha pubblicato online la ricerca, dicendosi più che disposto a discuterne i risultati, ma la cosa più sorprendente è il fatto che queste due organizzazioni, così come le altre, non hanno né confermato né smentito il rapporto. La domanda che ci si pone è: che logica ha questo modo non comunicativo di andare avanti? Una domanda che ci si continua peraltro a porre ogni volta che escono dichiarazioni, commenti e ricerche che riguardano i distributori.
Il modo più efficace
A mio parere una delle persone più sagge ed oneste sui vari vantaggi e svantaggi del nostro sistema distributivo è sempre stato Steven Rannekleiv, direttore a Rabobank di New York, che ha pubblicato un’analisi finanziaria dei vantaggi e svantaggi del sistema esistente (“Elimation of the Three Tier System”). Anche Rannekleiv ha dovuto notare che gli attori principali della distribuzione non sono mai stati molto comunicativi, anzi, ha aggiunto che uno scambio comunicativo fra i tre livelli, cosa altamente auspicabile, non esiste affatto.
Tornando alla ricerca di Wark, l’unico che ha detto qualcosa in proposito è stato Chris Underwood, ceo di Young’s Market Company, uno dei nostri “top five distributors”, con sede in California. Il quale si è limitato a dire che il lavoro svolto quotidianamente da loro è il modo più efficace di distribuire vino sul mercato. Perché? Perché se si eliminasse questo ramo, il numero di vini sul mercato diventerebbe molto più limitato (come succede in Inghilterra o Australia). Underwood provocatoriamente si è anche chiesto se sia veramente un loro obbligo vendere marche sconosciute, lasciando intendere che non sia loro dovere fare marketing per i produttori. Detto in parole povere, attenti produttori, perché se veniamo a mancare noi, con i nostri servizi di consegna e marketing, voi avete chiuso.
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