Gli Usa ti voltano le spalle? A Londra ti prendono solo se mandi la cisterna? Costi troppo in Germania? Nessun problema, a Pechino e dintorni ci strapagano. Ed ecco il nuovo “Strategy 2025”, senza il bisogno di scriverlo: andremo in massa lì
Se è vero che l’associazione di rappresentanza dei produttori definisce “not surprising” il calo del volume export, è altrettanto vero che le cose per gli australiani vanno maluccio sui principali mercati, o meglio su quelli in cui negli ultimi anni si era divenuti leader assoluti, vedi gli Stati Uniti. Non fa sorpresa il -10% sui volumi (7 milioni di ettolitri) perché si viene da una serie di vendemmie scarse, dice l’Australian Wine and Brandy Corporation, e perché ormai le scorte sono ai minimi. Ma quello che fa male ai canguri è il -9% archiviato sulla colonna valori, tornati per la prima volta in dieci anni sotto la soglia dei 2 miliardi di dollari, a 1,9 scarsi. Dovuta, questa erosione, a quel fenomeno che abbiamo recentemente analizzato di shift verso lo sfuso di una parte sempre più consistente di vino, anche a marchio, che ormai veleggia al 50% esatto. Con valori unitari andatisi via via riducendo, e lontani ormai anni luce dai 4 dollari al litro con cui si inauguravano gli anni Duemila, per assestarsi sui 2,70. Se a tutto questo si aggiungono le difficoltà legate all’andamento della valuta, da tempo apprezzatasi contro il dollaro e la sterlina, il cerchio si chiude con la parola crisi.
Vero è che a parziale consolazione gli australiani possono vantare fenomeni relativamente recenti: la perdita di valore registrata su mercati chiave come UK (-40% la bottiglia nel 2011) o Usa (-10%), ma anche i Paesi Bassi, viene compensata da una parte con lo sfuso spinto, ma dall’altra con la ricerca forsennata di nuovi sbocchi. E per nuovi sbocchi si intende l’Asia. Qui a macinare risultati oltremodo brillanti sono la Cina, Hong Kong, Singapore, il Giappone, che assieme fanno tutto il mercato britannico per le bottiglie australiane. A Hong Kong un litro di vino australiano oggi strappa 9,50 dollari, contro i magrissimi 3,20 spuntati a New York. Ma anche i 5 e passa dollari con cui vendono a Pechino lasciano impallidire l’Europa tutta. Oggi, a esportare vino in Cina sono 812 aziende, ovvero il 63% del totale, il record assoluto. Per intendersi, a portare vino in UK sono “solo” in 304, 270 in Canada, 201 in Usa. In media, ogni azienda ha esportato in Cina qualcosa come 50.000 litri, contro gli 892.000 degli Usa o gli 816.000 dell’Inghilterra. Segno che se le cose continuano così, potremmo presto assistere a un’ulteriore crescita, più marcata di quel +24% registrato dal continente asiatico per il 2011.
Insomma, la scommessa degli australiani è quella di tenere accesa la lampadina asiatica: se oggi, nonostante il dollaro e tutte le turbolenze dei mercati, il prezzo medio a bottiglia è risultato magicamente in aumento del 4%, a 4,13 dollari al litro, e se a dar segni di crescita è solo la fascia sopra i 5 dollari (+1% contro il -19% di quelli sotto questa soglia), lo si deve a cinesi e compagnia, che assorbono la stragrande maggioranza del vino australiano del segmento high-end. Pechino, infatti, è la maggiore destinazione dei vini australiani prezzati sopra i 7,50 dollari/litro, con un export valutato 78 milioni di dollari, contro i 50 di Usa e Canada e i 31 della Gran Bretagna. Se aggiungiamo Hong Kong e Singapore (sopra i 30 milioni di dollari), il quadro pare più che delineato nei contorni.
Sul Corriere Vinicolo n. 12, in uscita a Vinitaly, un’ampia disamina dell’export 2011 dei maggiori Paesi: Usa, Sudafrica, Spagna, Francia, Cile, Argentina
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