La consuetudine di lasciare la mancia nei ristoranti newyorkesi si sta affievolendo, ma peseranno sulla fortuna della categoria anche la conoscenza del vino (presunta o meno che sia) dei consumatori, la stampa, il “nuovo” e le dinamiche della smart economy
Su Eater.com, portale americano dedicato al mondo della ristorazione ed edito dall’agenzia Vox Media, il noto sommelier Levi Dalton (conduttore del podcast I’ll Drink to That! e recentemente tra gli speaker internazionali del forum sul business del vino Wine2Wine di Verona) prevede un anno difficile per i sommelier dei ristoranti newyorkesi.
Le sue considerazioni riguardano nello specifico il settore della ristorazione di New York ma sono, proprio per l’importanza di questo mercato, significative, o perlomeno possibile spunto di riflessione, anche in un’ottica più ampia.
L’emergente trend del no-tipping (quindi la tendenza a non lasciare più consistenti mance per il personale) sarebbe il primo ostacolo cui la categoria dovrà far fronte nel 2016. Se, infatti, in passato il sistema delle mance aveva fatto lievitare nella ristorazione il numero di sommelier (retribuiti secondo contratti fortemente incentrati proprio sull’extra retribuzione proveniente da quanto lasciato “in più” dai clienti), oggi il no-tipping trend starebbe portando a una consistente diminuzione del personale addetto all’assaggio e al servizio dei vini. Inoltre, il minor introito proveniente dalle mance starebbe facendo lievitare il prezzo dei vini sulle carte, con la conseguente diminuzione degli ordini di bottiglie, sempre più costose, da parte dei clienti.
A ciò si aggiunga il fatto che i consumatori newyorkesi sembrano oggi sentir meno la necessita di una consulenza professionale nel momento in cui sfogliano una carta del vino, soprattutto di fronte alla scelta di vini “sommelier proof”, cioè prodotti che per la loro (presunta) semplicità – o anche solo perche offerti ad un prezzo non troppo importante – non sembrano necessitare del prologo di un esperto.
Levi Dalton si spinge addirittura a citare il Prosecco (oltre alla categoria dei rosati) quale causa di questa percepita sicurezza da parte dei clienti, quasi che la colpa sia del vino e non di chi, per ragioni che qui non è il caso di trattare, non si appassiona nel promuovere un prodotto (in particolare secondo Dalton il Prosecco non è oggi a New York un prodotto “sommelier-driven”). A sostegno di quest’analisi si cita una recente ricerca di Nielsen, che suggerisce che la recente crescita delle vendite di Prosecco sia in parte da attribuirsi a compratori che mai prima avevano acquistato vino spumante…riferimento che appare quantomeno pretestuoso in una società come quella odierna, che tende (sarà la crisi o la post-crisi?), a modelli sempre più incentrati su di una smart economy, che sempre più invita anche il consumatore finale a far da sé.
Levi Dalton ammette infatti poi che parte della cattiva sorte della categoria sia da attribuirsi alla categoria stessa. Alcuni sommelier spingerebbero alcuni vini per ragioni diverse dal solo effettivo riconoscimento della loro qualità (si tratta a volte di legami personali, ma si potrebbero citare anche i paletti imposti dal canale distributivo…). A prova di ciò il fatto che la passione dimostrata da alcuni per un vino in pubblico e sulla stampa non è la stessa espressa in privato (Dalton, in modo significativo, usa nel suo articolo il termine inglese excitement – qui reso con “passione”).
Le cattive abitudini (clientelari) di alcuni minerebbero quindi la rispettabilità di un’intera categoria di professionisti.
Sulla futura sorte del mestiere di sommelier influiscono poi anche fattori più generali.
La crescita del canale di vendita direct to consumer (favorito anche dalle nuove normative commerciali statunitensi) crea rapporti diretti tra consumatori e produttori, così che da un lato si assottiglia il potere d’influenza degli esperti di vino e dall’altro, in funzione del maggior guadagno che le cantine possono ottenere dalla vendita D2C, chi acquista direttamente dal produttore ha spesso maggior possibilità di scelta (tipologie, varietà, prezzo) di chi acquista per scopi professionali (i sommelier invece devono passare attraverso un distributore).
Si aggiunga poi che, sempre in un contesto di innovazione, la diffusione dei forum on-line e delle wine-app rende il rapporto degli appassionati col vino più diretto e social, situazioni queste in cui la figura del sommelier trova più difficilmente voce.
La stampa stessa starebbe poi sfavorendo la categoria: in un mondo in cui la novità, la curiosità e il “particolare” attraggono la massa dei consumatori, l’influenza del parere e della visibilità dei giornalisti, che per professione hanno più facilmente la possibilità di muoversi e quindi di scoprire e proporre nuovi vini, cresce, a scapito di quella dei sommelier i cui spostamenti sono più limitati (per evidenti motivi professionali), così come più limitato è il numero delle persone cui possono portare il loro messaggio, tra i tavoli di un ristorante.
Alla popolarità del “nuovo” contribuisce anche, e all’interno della stessa categoria, il sempre maggior numero di sommelier giovani, meno esperti del passato e dei vini d’annata e (forse per indole) più propensi proprio a proporre il nuovo al posto de tradizionale.
E non giova, per ultimo il crescente numero aspiranti addetti all’assaggio e al servizio del vino, che influisce negativamente sui salari.
FEB
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