Le quotazioni in Borsa di Italian Wine Brands e Masi Agricola aprono nuovi scenari. E la stessa natura delle due aziende, profondamente diverse tra loro, smonta molti luoghi comuni con cui si tendeva a spiegare il disinteresse degli investitori di capitale per il settore vitivinicolo. Che sia l’inizio di una nuova era?
“La finanza è un mezzo, non un fine”. Con questa considerazione Sandro Boscaini sancisce la sua sicurezza e serietà nella scelta di quotare in Borsa la prestigiosa etichetta Masi, di cui è presidente. “Non possiamo continuare a vedere Borsa e vino come diavolo e acqua santa”, ha aggiunto. “Sono due fattori di produzione in un settore che ne ha estremamente bisogno e devono andare a braccetto”. Grande pioniere nel muovere questo passo, nell’articolo pubblicato sul numero 36 del Corriere Vinicolo spiega le sue ragioni, visto che fino a ieri la grande tradizione delle cantine italiane, per lo più guidate dalla stessa famiglia da generazioni e generazioni, come la stessa Masi Agricola, produttrice di uno dei vini nobili italiani, l’Amarone della Valpolicella, guardavano a questa ipotesi con molto scetticismo. Per ora è l’unico italiano insieme alla nuova società Italian Wine Brands (Iwb), con cui Giordano Vini e Provinco Italia si sono già quotate a Piazza Affari. Due aziende profondamente diverse: una classica azienda familiare da un lato, con vigneti di proprietà o in gestione e vini di alta qualità soggetti ad invecchiamento, dall’altro Iwb, senza terreni ad appesantire i bilanci, e con produzione varia e competitiva a livello di prezzi. Diversi i fatturati (60 milioni di euro per Masi, 140 milioni di euro per Iwb), così come il numero di bottiglie prodotte (12 milioni per Masi, 44 milioni per Iwb). Con una quantità di azioni rese disponibili per il mercato assai differente: il 25% per Masi, il 60% per Iwb.
Il Corriere Vinicolo si è però chiesto quali investitori potrebbero essere interessati a questo tipo di investimento e lo ha domandato ad alcuni consulenti finanziari che operano in questo settore e che hanno fatto le loro considerazioni tecniche: hanno tracciato il profilo di un’azienda vinicola “ideale” per un investimento finanziario; hanno ipotizzato l’opportunità di crescere come dimensioni, per entrare nel mercato globale e diventare appetibili per gli investitori, invece di rimanere nell’ambito di un mercato tutto sommato di nicchia, come accade per le aziende familiari oggi; si parla poi dei fattori critici per un potenziale investitore, come l’indebitamento comune a molte aziende vinicole italiane, il peso degli asset (terreni, strutture di produzione, cantine), o gli endemici problemi del nostro Paese, la lentezza della burocrazia e della giustizia in primis.
Completa l’articolo un approfondimento sui molti fondi di investimento cinesi che stanno sondando in gran segreto l’Italia in cerca di aziende sui cui mettere denaro, tra cui anche quelle vitivinicole, non solo per finalità finanziarie, ma anche industriali, perché aiuterebbero queste imprese a sviluppare un mercato in Cina.
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