Come l'Australia riesce a sopravvivere sul mercato britannico inviando l'80% del prodotto sfuso e guadagnando la metà esatta di quello che spediva nel 2008 in bottiglia
A livello di volumi, sono sempre 2,5 milioni di ettolitri esportati, stabili ormai dal 2004. Ma se in quell’anno l’80% circa era vino in bottigia, otto anni dopo (otto, non venti o trenta), le percentuali si sono completamente ribaltate: l’export australiano per l’80% varca le dogane inglesi in cisterna, lasciando alla bottiglia una quota ormai residuale, quasi da estinzione.
E’ fotografata nei grafici qui sotto l’evoluzione a cui piccoli e grandi gruppi australiani si sono dovuti sottoporre per mantenere il mercato, una strategia che in un Paese dove i margini sono risicati ormai all’osso è l’unica a disposizione per vini che, dopo la galoppata di inizio anni Novanta, primi Duemila, si sono trovati a dover fronteggiare una grave crisi d’identità: quella che viene definita “commoditizzazione” del vino. Fenomeno che un po’ si sono andati cercando, pompando il vigneto e le produzioni certi che il loro appeal non sarebbe mai venuto meno, e che un po’ li ha travolti, avendo destinato gran parte della propria fortuna a un mercato a prima vista facile, perché ricco e di lingua inglese, considerato quindi di casa. ma che alla lunga ha mostrato (e continua a mostrare) il sorriso del ghigno.
A livello di valori, invece, con tutto quel volume inviato, è logico che lo sfuso si sia ormai ritagliato una parte importatnte (il 53% circa del totale export in UK). Ma quello che deve far riflettere è come nel breve volgere di qualche anno, dal 2008, all’alba della crisi economica, il valore dell’export si sia più che dimezzato: era poco meno di 1 miliardo di dollari nel 2007, si è ridotto a 388 milioni nel 2012. Una strategia quindi apparentemente suicida, a meno che non la si inscriva in un progetto un po’ più ampio, che prevede in patria l’abbattimento di costi di produzione che incidono in maniera pesante: linee di imbottigliamento (con annessi costi energetici), packaging, trasporto (spedire in cisterna contro l’equivalente in casse). Costi ceduti ai partner commerciali in UK, come ha fatto Treasury Wine Estates lasciando il confezionamento ad Accolade (ex Constellation), in contropartita della cessione totale del prodotto al distributore (in gran parte sono vini etichettati come private label dai vari Tesco, Sainsbury’s). Tutte operazioni che consentono di marginare quel tanto che basta per rendere l’operazione profittevole, almeno per i vini di massa.
Se poi invece il brand si ha la forza contrattuale di tenerselo, e quindi si paga il conto solo all’imbottigliatore, ma poi sullo scaffale ci sei tu con il tuo marchio, allora l’operazione (di fatto un contoterzismo provvisorio) diventa ancora più sostenibile e i margini aumentano di qualcosa. Quel tanto che basta per continuare a stare sul mercato. Ed ecco che un grafico come quello sotto, a prima vista insostenibile, assume un suo perché.
Fonte: elaborazioni Corriere Vinicolo su dati Dogane australiane
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